I Assemblea Sinodale – I Segni dei Tempi

I Assemblea Sinodale – I Segni dei Tempi

19 Maggio 2022

Assemblea sinodale

Segni dei tempi: dentro il tempo in ascolto dei “fratelli tutti”

Sede Whirpool Europe, 14 maggio 2022

Dopo gli eventi dolorosi della Passione, gli Apostoli del Signore non sono più dodici, ma undici. Uno di loro, Giuda, non c’è più: si è tolto la vita schiacciato dal rimorso.

L’evangelista Luca ci fa vedere che dinanzi all’abbandono di uno dei Dodici, che ha creato una ferita al corpo comunitario, è necessario che il suo incarico passi a un altro. E chi potrebbe assumerlo? Pietro indica il requisito: il nuovo membro deve essere stato un discepolo di Gesù dall’inizio, cioè dal battesimo nel Giordano, fino alla fine, cioè all’ascensione al Cielo (cfr At 1,21-22). Occorre ricostituire il gruppo dei Dodici. Si inaugura, a questo punto, la prassi del discernimento comunitario, che consiste nel vedere la realtà con gli occhi di Dio, nell’ottica dell’unità e della comunione.

Gli Atti degli Apostoli ci dicono che due sono i candidati: Giuseppe Barsabba e Mattia. Allora tutta la comunità prega così: «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due tu hai scelto per prendere il posto … che Giuda ha abbandonato» (At 1,24-25). E, attraverso la sorte, cioè il segno, il Signore indica Mattia, che viene associato agli Undici. Si ricostituisce così il corpo dei Dodici, segno della comunione, e la comunione vince sulle divisioni, sull’isolamento, sulla mentalità che assolutizza lo spazio del privato, segno che la comunione è la prima testimonianza che gli Apostoli offrono. Gesù l’aveva detto: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

I Dodici manifestano negli Atti degli Apostoli, dunque, lo stile del Signore. Sono i testimoni accreditati dell’opera di salvezza di Cristo e non manifestano al mondo la loro presunta perfezione ma, attraverso la grazia dell’unità, fanno emergere un Altro che ormai vive in un modo nuovo in mezzo al suo popolo. E chi è questo? È il Signore Gesù. Gli Apostoli scelgono di vivere sotto la signoria del Risorto nell’unità tra i fratelli, che diventa l’unica atmosfera possibile dell’autentico dono di sé.

Oggi celebriamo la festa di San Mattia, è questo il motivo di questa riflessione. Anche noi abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza di testimoniare il Risorto – vi prego, ve lo dico con tutto il cuore -, uscendo dagli atteggiamenti autoreferenziali, rinunciando a trattenere i doni di Dio e non cedendo alla mediocrità. Il ricompattarsi del collegio apostolico mostra come nel DNA della comunità cristiana ci siano l’unità e la libertà da sé stessi, che permettono di non temere la diversità, di non attaccarsi alle cose e ai doni e di diventare martyres, cioè testimoni luminosi del Dio vivo e operante nella storia.

Mattia è stato un discepolo fedele e perseverante fin dal battesimo di Giovanni Battista in una sequela ordinaria, semplice, che non ha mai fatto parlare di lui, in nessuno dei vangeli viene citato, ma la qualità del suo essere discepolo lo porterà a essere uno dei due scelti a re-integrare il numero dei dodici.

Mattia ci può molto interpellare sulla nostra vita di fede, sul nostro seguire il Signore, su cosa cerchiamo. Mattia ha ricevuto un ministero, proprio perché non lo cercava, per lui era sufficiente, essenziale, essere discepolo, non cercava altro, amava il nascondimento, quella qualità del servire, dell’amare senza vanto, senza apparire, senza voler essere qualcuno, senza riconoscimenti. Siamo noi capaci di una tale sequela? Sequela intensa, perseverante, radicale che a Mattia è stata riconosciuta da Pietro e dagli altri, ma nascosta, umile, senza pretese, gratuita.

Sequela la cui gioia e fonte profonda viene dallo stare con il Signore “rimanete nel mio amore”, e dal servire e amare cercando di vivere il comandamento che Gesù il ci ha lasciato “questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.

Sinodo della Chiesa. Cioè…

In quest’ottica, in questa logica, che cosa vuol dire per noi, Chiesa di Napoli, fare Sinodo? Io credo che fare Sinodo, essere chiesa sinodale, significa proprio questo: cercare insieme il Vangelo nella certezza che ha parole di vita per l’oggi del nostro tempo. E quando questa “vita” non emerge in tutta la sua bellezza e potenza non è perché le parole evangeliche sono sfiorite ma è solo perché le abbiamo cercate male, nei luoghi sbagliati e anche nel modo sbagliato, magari da battitori liberi e non come membri unici e originali di una comunità, di un corpo solidale, poliedrico e unito.

Vedete, fratelli e sorelle, ogni volta che come Chiesa ci si confronta, con parresia e lealtà, si è senz’altro già in un atteggiamento sinodale. Vivere un Sinodo significa andare a fondo, verificare con più attenzione – e direi anche con più serenità e onestà intellettuale – il cammino ecclesiale, per comprendere se è davvero fondato sul Vangelo e se le parole e la testimonianza con cui lo annunciamo sono realmente capaci di comunicare all’uomo di oggi, di parlare alle sue speranze, ai suoi dolori, ai suoi sogni, alle sue attese. Credo che il Sinodo sia un momento in cui si esplicita meglio e in un clima di maggior ascolto ciò che la Chiesa è chiamata ad essere sempre: un popolo di viandanti che hanno come unica divisa il bastone del pellegrino e la bisaccia del cercatore.

Occorre lavorare affinché l’esperienza del Sinodo non diventi un fatto clericale o per gli addetti ai lavori: in questo modo il Sinodo sarebbe finito prima di cominciare. È un cammino dal basso, un processo di ascolto comunitario che diviene ascolto del mondo, del popolo di Dio e dello Spirito che nei sotterranei della storia continua a seminare la speranza e ad indicare alla Chiesa la rotta da seguire. Sinodo significa cercare insieme questa rotta, tutti insieme, senza escludere nessuno e, soprattutto, senza dare per scontato che gli “addetti ai lavori”, quelli che vivono al “centro” abbiano bussole migliori: la storia della salvezza ci insegna che spesso la rotta viene indicata dagli ultimi, dagli improbabili, dai periferici. Guai a non ascoltarli.

Il punto non è da dove parti ma se sei disposto a mettere in gioco ogni cosa, perfino i tuoi convincimenti più granitici, per cercare con un cuore libero e una fiducia grande il sogno di Dio, la meta a cui ti vuole condurre e per la quale devi essere disposto a rischiare ogni cosa. Come discepoli, come comunità siamo chiamati a questo. Tutti.

Il percorso sinodale, per essere fedele a sé stesso, deve essere capace di non lasciare indietro nessuno, di evitare che una voce, una qualsiasi voce, ecclesiale o non ecclesiale, per pregiudizio o preconcetto non venga ascoltata. Il vero cammino sinodale coinvolge tutti non solo perché tutti vengono ascoltati ma anche perché tutti, ma proprio tutti, siamo chiamati ad ascoltarci gli uni gli altri e quindi a verificarci, a correggerci, a metterci in discussione, a rivedere alcune posizioni e tentennamenti. Insomma, vale per il Sinodo quello che vale per ogni incontro autentico, reale: non esci mai uguale a prima, non vieni fuori immutato e indenne, ma piuttosto cambiato, maturato, cresciuto. E se questo non avviene significa che non c’è stato vero dialogo, vero ascolto.

Per questo c’è da fare, perdonatemi, un percorso propedeutico fatto di purificazione dell’udito e di liberazione dello sguardo altrimenti ascolteremo e guarderemo gli altri con dei “filtri” che non ci consentiranno di leggere tra le pieghe delle loro parole e nelle traiettorie dei loro occhi, la parola e lo sguardo del Risorto. Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi Spirituali prima di passare al tempo della sequela, delle scelte di vita e della contemplazione fa passare l’esercitante per una settimana di “purificazione” dello sguardo del cuore. Credo che questo sia necessario per tutti noi altrimenti nel Sinodo corriamo il rischio di seguire noi stessi e non Lui, di fare scelte comode per noi ma incoerenti con il Vangelo e di contemplare unicamente le nostre idee, le nostre vedute, e non il suo amore che libera e risana.

Dal canto mio, la mia esperienza mi dice che una strada sicura per imparare è andare da coloro che “hanno sempre ragione” e questi sono i poveri. Come Chiesa dobbiamo recarci in pellegrinaggio agli altari delle loro lacrime, ai santuari delle loro speranze, nei mausolei delle loro attese, nei sacrari delle loro delusioni per scoprire la tenerezza di un Dio che ama dimorare alle periferie del mondo, abitando la carne degli ultimi e dei marginali. Solo camminando al loro passo il nostro sinodo sarà secondo il Vangelo! Questo è il motivo per cui questa mattina ci troviamo qui, in questa sede della Whirpool. E noi non possiamo parlare se prima non abbiamo ascoltato. Proprio per questo prima di dare inizio all’0assemblea questa mattina, dopo la preghiera, darò la parola ad un gruppo di donne della Whirpool.

Credo che questa sia davvero quella che in Piazza Garibaldi, lo scorso 28 aprile, vi dissi che per me deve essere la «Chiesa del grembiule»: «estroversa», non autoreferenziale e ripiegata su se stessa, non più chiusa nei panni ristretti del «regime di cristianità.

Ecco perché questa Chiesa deve essere più libera anche nella sua vita interna. Il Concilio è stato molto chiaro su questo punto: l’ecclesiologia di comunione – dice – taglia alla radice ogni forma di «clericalismo», cosicché nella Chiesa non vi sono cristiani di serie A (il clero) e di serie B (i laici), ma «comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione».  Di conseguenza – specifica –, la Gerarchia non si colloca al di sopra, ma all’interno del Popolo di Dio; il successore di Pietro non è un imperatore, ma è il «servo dei servi di Dio», e si situa, egli pure, all’interno del corpo mistico di Cristo; i fedeli laici non sono minorenni, né «preti mancati» o delegati del clero, ma ricevono direttamente da Cristo, nel Battesimo e nella Confermazione, la missione unica, propria di tutto il Popolo di Dio, in quanto anch’essi – nella loro misura – partecipano dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo.

Questo per me significa, oggi, nel qui e ora, davvero riscoprire, ritrovare, avere lo stile di Cristo, che non consiste nel pretendere di copiare quello che lui ha fatto, sarebbe impossibile, i tempi storici sono diversi, ma dovrebbe intendersi come un attingere alla stessa sorgente, alla sua ricerca di significati, alla sua profondità nel leggere la vita e le situazioni, al suo farsi domande di fronte all’esistenza. Siamo chiamati, tutti, nessuno escluso, ad accogliere e a praticare l’umanità di Gesù e soprattutto a riconoscerla, qui e ora. Questa è la via che ci porterà alla verità e alla vita. Non ci sono ricette precise ma prassi buone che siamo chiamati a individuare e alimentare.

Ecco perché, ancora una volta, l’invito forte ad avere il coraggio di credere che questo Sinodo della Chiesa di Napoli è davvero un’occasione unica, un momento di grazia. Non sprechiamolo. È il Signore che ce lo sta chiedendo.

 

Documenti della I Assemblea Sinodale – I Segni dei Tempi

Documento finale